l’idea non vale nulla, la riservatezza non serve

Diverse volte al mese ci viene chiesto di quotare progetti di sviluppo e start-up previa firma di un accordo di non divulgazione dell’idea che ne è alla base. Firmiamo perché vogliamo rassicurare i nostri interlocutori, ma vorrei anche dire che non è mai servito. E che anzi, forse è addirittura controproducente.

Non serve a molto perché un’idea di business è molto di più della sua parte digitale e qui spesso c’è un primo equivoco. L’agenzia ha tutto l’interesse a sviluppare la parte digitale dell’idea di business e fa il tifo per la start-up perché se questa avrà successo, l’agenzia ne trarrà vantaggio come partner tecnologico.

Se l’idea da sola, per il solo fatto che la racconti, producesse valore, perché non sei già ricco? Perché l’idea, da sola, non vale quasi niente.

Senza clamori, questa affermazione avrebbe destato perplessità qualche anno fa, oggi è un’acquisizione abbastanza comune: l’idea, da sola, non vale niente.

Perché tra il raccontarla e il realizzarla, c’è di mezzo l’esecuzione che richiede molte competenze di business nell’affinarla (validazione di mercato e validazione dell’idea), competenze nello sviluppo (prototipo, beta), competenze nel cambiarla in funzione delle reazioni del mercato (ricerca del business model) ecc.

Insomma, perché l’idea valga qualcosa, è necessario che qualcuno la realizzi. E non è  un caso se gli Incubatori vogliono conoscere il team delle start-up prima di finanziarle; come per dire: ok, abbiamo letto l’idea, ma saprete fare tutto il resto, l’azienda vera e propria, che è poi quella che crea valore?

Se si vuole, si arriva alla stessa considerazione per altre vie: un’idea diventa presto una start-up, cioè un’impresa innovativa; e se già un’impresa semplice (priva di idee originali) ha la sua complessità gestionale, figuriamoci un’impresa innovativa.

E’, appunto, la complessità di gestione di un’impresa (per chi sa di che si tratta) sommata alla innovazione (sempre per chi ne ha idea).

Da qui la consapevolezza che l’idea, da sola, senza la capacità di gestire tutto quello che ne deriva (un’impresa vera e propria) non vale poi molto.

Quando la riservatezza è controproducente

E’ per questo motivo che in molti, ormai, nemmeno chiedono più la firma di accordi di riservatezza prima di raccontare la propria idea. Al contrario, vanno alle start-up competition e fanno l’esatto contrario: raccontano l’idea ad una platea a loro sconosciuta per vedere l’effetto che fa e raccogliere preziosi feedback. E certo non si mettono a far firmare accordi di riservatezza a tutti gli astanti.

A pensarci, lo stesso mito dell'”elevator pitch” (il discorso fatto al potenziale investitore in ascensore, nel breve tempo in cui questo lo conduce al suo ufficio, per chiedergli un finanziamento) presuppone che si racconti l’idea ad un uomo d’affari che può aiutare a realizzarla (forse tanto potente che può perfino fare da solo), ma nel mito non si è mai parlato di fargli firmare al volo un accordo di non divulgazione.

Divulgare consente di ricevere visibilità e feedback sulla propria idea così da poter evitare errori. Così intesa, la riservatezza è nemica dello startupper, perché gli impedisce di ricevere riscontri prima di investire.

Quelli che raccontano la propria idea lo fanno nella consapevolezza che non è la riservatezza l’alleato necessario al successo ma l’intelligenza, la tempestività, la capacità di raccogliere budget e spenderlo bene.

Il falso mito dell’idea unica e originale

In Italia ci sono circa 800 torrefazioni di caffè: nessuna idea originale, tanta concorrenza, lavorano quasi tutte egregiamente in un mercato per giunta maturo. Ecco, tanto per fare un esempio che smonta il mito dell’idea unica e geniale.

Spesso la nostra idea l’ha avuta già qualcun altro, così siamo di nuovo nel campo delle competenze, in cui vince il più bravo se il mercato è maturo; oppure vincono tutti se il mercato è in espansione.

Corollario: se scopri che la tua idea è già stata realizzata (cosa che scopriamo quasi sempre appena me la racconti e googlo correttamente; oppure dopo qualche mese dalla messa online) rallegrati: significa che non sarai l’unico a fare pubblicità al mercato, che avrai qualcuno da imitare e che se farai bene il tuo lavoro col tuo team, forse vi comprano e vi sistemate; oppure comprate voi loro, perché siete più bravi.

Nei casi in cui, invece, si punta a mercati digitali che si crede non esistano, idee che si concretizzano in promesse generiche, servizi che si spera rivoluzionari ma che semplicemente si importano dall’estero, vale la velocità e correttezza d’esecuzione a tutelarti, cioè di nuovo la concorrenza.

Cosa tutelare, quindi?

Ci sono casi in cui la tutela è veramente necessaria: una particolare visione del mercato supportata da dati e informazioni non pubbliche; la conoscenza approfondita di un problema e l’idea molto dettagliata di come risolverlo; un algoritmo o una formula che realizzano un vantaggio, ecc.

Anche nei casi in cui la tutela ha senso, un paio di suggerimenti: la durata può essere, per es, di un anno al massimo: se pensi che Facebook ha solo 12 anni, quanto puoi vincolare un’agenzia in proporzione?

Tutto quello che è di dominio pubblico o il mix di cose di dominio pubblico, poi, non può essere oggetto di tutela (vorrei fare il marketplace social del … vorrei mettere insieme realtà virtuale e social … vorrei fare un’app che consente alla gente di esprimere giudizi su … ).

Bene, ti senti pronto? Puoi partire da qui per saperne di più. In bocca al lupo.

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